LEADERSHIP: DONO DEGLI DEI O CAPACITA’ DA APPRENDERE

Fino a qualche decennio fa, la stessa definizione del termine leadership era problematica. La leadership veniva confusa di volta in volta col carisma, con l’attitudine al comando, con la manipolazione delle persone e con tante altre cose.

Solo con l’avvento di alcuni studiosi americani si è posta l’attenzione sulla leadership considerandola uno degli elementi fondamentali dell’attività manageriale.

Con Mac Gregory, Blanchard, Mac LLelland ed altri lo studio della leadership ha assunto caratteri propri.

Dagli anni 60 in poi si ritiene, infatti, che la leadership si possa “imparare” e non sia necessariamente un dono degli dei. Se così è, riesce difficile capire come e perché tanti manager esercitino malamente la loro leadership, non combinando nulla, nel migliore dei casi, distruggendo aziende, nel peggiore. Tutti noi, anche negli ambiti lavorativi, abbiamo esempi di situazioni cambiate in meglio o in peggio al cambiare del “manico”.

Il problema principale è che all’arte del comando non viene direttamente addestrato nessuno, ( se non i militari ) e nella scuola viene data una formidabile preparazione tecnica trascurando una specifica preparazione su come si trattano le persone. Il manager viene abituato a lavorare “sulle” persone; nessuno gli insegna a lavorare “con” le persone.

La fondamentale intuizione di Blanchard è stata quella di percepire che non tutte le persone possono essere dirette nello stesso modo;  primo passo del  vero leader è stabilire il grado di preparazione  dei collaboratori e la loro motivazione al compito assegnato, creando una sorta di griglia.

Solo dopo, il leader potrà “adattare” il suo stile ai collaboratori.

Per la verità, or son 500 anni, in un celebre passo del Principe, Machiavelli aveva delineato tra le qualità del sovrano la capacità di essere “golpe e lione”,   ipotizzando una sorta di leadership situazionale ante litteram, codificata negli anni 50 dalle varie scuole di Palo Alto. E anche in epoca paleocristiana, qualcuno aveva detto che per governare gli altri bisognava “ Knoti s’auton” ( greco antico ) ovvero” conosci  te stesso”.

Ed ecco altre 2 caratteristiche di un leader: capacità di adattamento alla situazione e  ai collaboratori, continua introspezione e capacità di mettersi in discussione e “cambiare marcia”.

Il vero leader infatti – lavorando “con” e non “sulle” persone, non impone, fa si che il collaboratore accetti.

Ovviamente ci sono dei contesti in cui tale condotta sarebbe deleteria: esempio, le emergenze. Immaginate che un capo dei vigili del fuoco che ( al posto di dare ordini sul come spegnere un incendio ) cerchi di “convincere”. Sarebbe un disastro: eppure anche recenti e meno recenti casi di cronaca ci hanno fatto assistere a situazione di emergenza in cui il leader preposto non ha semplicemente saputo gestire la situazione.

Se guardiamo al normale contesto operativo,  spesso ci accorgiamo che il leader non sa fare il suo lavoro:  o delega troppo ( fai tu! ) e poi “rimprovera” se il lavoro viene fatto male, o pretende di  regolare tutti i singoli passaggi di un’operazione, spesso meglio conosciuti dal collaboratore.

L’errore sta nel non aver effettuato quello screening delle competenze/motivazione indicato da Blanchard.

Infatti secondo questo autore, al “principiante entusiasta” bisogna dare  regole precise, esempio, e controllo continuo, all’”esperto demotivato”, sostegno motivazionale e sempre maggiore delega; infatti un principiante lasciato allo sbando, combina guai, un esperto privo di sostegno motivazionale si demotiva maggiormente e spesso assume l’atteggiamento “ allora, questa cosa falla tu”.

A questo punto è chiaro che fine ultimo della leadership è far fare le cose bene, facendo crescere le persone; difficile, non impossibile.

Vorrei sottolineare che lo schema di Blanchard ( ma anche quello di Mac Gregory ) parte non dal leader, ma dalle persone.  Dovendo “lavorare con “, è indispensabile una profonda conoscenza dei collaboratori.

Non sempre l’assunto “lavorare con” è ben compreso; si ritiene infatti che la semplice posizione gerarchica ufficialmente  conosciuta da tutti, faccia si che il collaboratore “deve”  eseguire; il problema è che  al di là di compiti elementari ( zappare la terra, trasportare un carico, pascolare il bestiame ecc ) tutti i compiti che siamo chiamati a  svolgere necessitino  di “pro attività”, cioè di attività non prevista, attività “oltre”. E ciò è tanto più vero nel rapporto col pubblico, dove la variabilità delle situazioni necessita una forte dose di pro attività. Il vero leader incoraggia il collaboratore ad essere proattivo, non “ condannando” eventuali errori, ma sussumendoli nella loro positività ( tradizione  laico/americana del valore dell’errore, che si contrappone alla tradizione cattolico/europea di semplice condanna senza appello ). In altre parole l’atteggiamento del leader deve far si che dall’errore il collaboratore tragga spunti per evitare di ripeterlo.

L’analisi dell’errore – trascurata nella maggior parte delle realtà lavorative italiane – è alla base di diversi flop aziendali.

Mi accorgo d’aver toccato in ordine sparso tanti temi, trascurandone altri fondamentali nella leadership.

Ne cito solo un altro: chi ha leadership deve essere anche “visionario”, deve cioè avere una visione molto avanzata di come saranno le cose  e essere capace di rappresentarla ai collaboratori, facendola divenire loro. Esempi nefasti di questa capacità li abbiamo avuti in Europa negli anni 30 in Germania:  un  caporale austriaco seppe turlupinare il popolo di Goethe e di Kant facendo intravedere futuri radiosi;  ma sempre in ambito politico, un fulgido esempio di capacità visionarie le ebbe negli anni 70/80 un bistrattato  attore di serie b americano, quando contro tutti i pareri seppe “far vedere” al suo popolo e al mondo una Unione Sovietica  diversa e anticipando di  almeno un decennio la caduta del muro e dei Soviet.

Ovviamente, il vero leader “deve” lavorare per la “sua” visione:  senza far nomi, 10 anni fa chi poteva immaginare che l’automobile americana per antonomasia, la jeep, sarebbe diventata italiana?

Frutto di una vision conseguente alla constatazione espressa da Marchionne  all’inizio della sua carriera in Fiat  che nel 2020 solo 4/5 gruppi sarebbero sopravvissuti al mercato globale, e al conseguente comportamento operativo ( favorito anche da straordinarie circostanze, peraltro prontamente colte ).

Riassumendo, una buona preparazione del leader passa per prima cosa dalla capacità di affinare le doti di introspezione e analisi del se, poi dalla capacità di conoscere in profondità i collaboratori, dall’attitudine a modellare il suo stile di leadership a questi ultimi e infine  dall’attitudine a comunicare efficacemente una “vision”.

Queste 3  ultime cose possono essere  proficuamente apprese.

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